LINK DEL BLOG “SIENDO PSICOANALISTAS”
Intervista a Maurizio Collovà GRUPPO BUENOS AIRES COORDINATRICE Dr.ssa CLARA NEMAS Gruppo: Abbiamo trovato molto interessante l’esposizione sull’importanza del rapporto tra verità, dolore mentale e capacità di contenerlo. Sembrerebbe la questione più importante nei primi momenti dell’analisi per poi potersi occupare di altri contenuti. E’ così? In oltre lei suggerisce di mettersi in contatto con le emozioni del campo invece che cercare supporto troppo attivamente nelle proprie teorie. Può darci degli esempi?
Maurizio Collová: E’ così solo in parte in quanto credo che la rilevazione da parte dell’analista del rapporto che esiste tra verità, dolore psichico e capacità di contenimento di questo, non possa mai essere abbandonata nel corso di tutta l’analisi. Penso questo aspetto come una bussola che costantemente ci da indicazioni sulla sostenibilità della cura. E’ estremamente importante che la frustrazione, che è un fattore di crescita mentale, non si trasformi in persecuzione, ma sarà il paziente ad informarci di questo aspetto della cura. Le sue risposte ai nostri interventi, se ascoltati anche in questa ottica, ci danno un continuo riscontro sulle qualità e quantità emotive che abbiamo sollecitato e sullo spazio disponibile ad essere accolte o rifiutate. Una bella citazione di Bion dai Seminari S. Paolo, spiega molto bene questo concetto. Bion risponde ad un analista in supervisione: “Non è semplicemente questione di quello che lei capisce come analista, ma si tratta di sapere se questa paziente è in grado di capire un’interpretazione che lei potrebbe darle. Per fare un esempio non ci si può lanciare in una grande spiegazione della biologia del tubo digerente con un lattante. La spiegazione può essere corretta, ma è una assurda perdita di tempo. … (Bion; Seminari clinici, 1987). E’ altrettanto ovvio che da questo rapporto avremo anche indicazioni sul miglioramento complessivo della capacità di gestire le frustrazioni in quanto legata al rapporto contenitore/contenuto ovvero allo “sviluppo di contenitore”. Ad esempio se raffrontiamo il modo di reagire di un paziente ad una interpretazione/comunicazione/intervento dell’analista che riguardi la separazione per le vacanze estive, mettiamo oggi e dopo due anni, sarà possibile comprendere le variazioni in termini di tolleranza invariata, o migliorata e perché no anche del godimento del potersi liberare per un certo tempo delle fatiche e dei costi di un’analisi. Non si comprende infatti perché il paziente non possa anche provare godimento per una sospensione analitica. Quanto alla seconda parte della domanda, partirei dalla affermazione che sia analista che paziente subiscono, ovviamente in modo diverso, le turbolenze emotive del campo analitico. Un richiamo troppo forte alle proprie teorie in seduta può dipendere da una condizione di difficoltà dell’analista rispetto alla sua capacità di accogliere e fare posto alle emozioni producendo una sorta di cecità emotiva a genesi teorica. Io credo che l’analista debba cercare di entrare in seduta con bagaglio leggero, con mente il più possibile sgombra e permeabile alle identificazioni proiettive del paziente. Naturalmente ciò implica una certa consapevolezza del proprio stato mentale e una continua manutenzione del proprio strumento recettivo. Farei un paragone con la membrana di un fonendoscopio, è importante per il cardiologo che verifichi lo stato di elasticità della membrana per potere riconoscere i rumori sospetti. Voi nella domanda avete fatto cenno alla mia affermazione che il lavoro dell’analista abbia anche una componente “artigianale”. In questo senso mi riferisco a quella parte del lavoro che nasce in seduta come componente fresca. Questa componente deriva da uno stato sognante dell’analista e da una concezione, per dirla con Meltzer, Ferro, della seduta come “sogno continuo”, capace di produrre delle reverie che siano funzionali alla ricerca del senso, di generare significato, per il paziente e per la coppia a lavoro, di promuovere ulteriori sviluppi narrativi. Possiamo riprendere l’esempio della “impiegata allo sportello”, del lavoro a cui fate riferimento, come quella reverie che consente all’analista di trovarsi all’unisono con la paziente, ampliando il contenitore. G: Ritiene che sia possibile lavorare in questo modo anche con pazienti con meno capacità di simbolizzare? M.C.: Non sempre è possibile, a volte è necessario prestare una parte dell’apparato mentale al paziente che non è ancora in grado di simbolizzare e offrirgli la propria simbolizzazione in modo continuo, aiutandolo a costruire la sua. In poche parole, secondo un certo modello teorico, ciò che viene a mancare è una sufficiente funzione alfa che non produce pittogrammi, primi elementi per la costruzione del sogno inteso in senso bioniano e i conseguenti Derivati Narrativi. L’analista deve riuscire a sognare il sogno del paziente. Facendo questo, col tempo riuscirà a passargli anche la funzione necessaria a fare questo.
G: Come analisti appena laureati, ci preoccupa come preparare le nostre menti per aiutare il paziente ad espandere il proprio contenitore.
M.C.: Ritengo che l’analista e l’analisi siano l’unica possibilità. La conoscenza è un fatto dialogico, sono necessarie due menti per aumentare la nostra conoscenza. Questo fatto è insito nel modello madre – bambino, che si basa sulla relazione con una mente altra che permette di gettare le basi per la costruzione di un nuovo apparato per pensare. Naturalmente questo aspetto dialogico deve essere mantenuto costante durante tutta l’analisi, mi riferisco brevemente alla domanda precedente relativa ai pazienti gravi, cosa significa costruire un apparato per pensare? Significa potere avere la possibilità di entrare in contatto con una modalità di fare esperienza che Ogden chiama posizione contiguo autistica. In essa gli elementi di sensorialità sono molto importanti per iniziare a costruire un pavimento psichico, successivamente si può partecipare alla ricerca della voce del paziente. Per me è importante anche ascoltare e condividere il livello primitivo e sensoriale della loro comunicazione. G: Potrebbe fare un esempio?
M.C.: Ci sono pazienti discretamente organizzati nella vita ma quando sono sul lettino appaiono cose strane, ad esempio in relazione alla sensorialità. Tamburellano con le dita sul ventre, si toccano i capelli ossessivamente, giocano con una punta del cuscino fino a consumarlo, si girano su un fianco rannicchiandosi in una posizione apparentemente molto 3 regressiva, potrei proseguire con molti esempi.. Sono tutti elementi che attribuisco all’esigenza di verificare i limiti cutanei, la pelle del loro mondo interiore, le loro risonanze interne, una sorta di contemporaneo dialogo attraverso i sensi. In quel momento questi pazienti parlano senza usare la parola, usano il linguaggio del corpo, riaccedono a elementi preverbali. Penso che dobbiamo essere in grado di ascoltare anche questa lingua per entrare in contatto con elementi di prima formazione della mente e funzionamenti che non smettiamo mai di utilizzare come modi di fare esperienza del mondo, assieme ad altre modalità quali la posizione schizoparanoide e la posizione depressiva. Al momento Ogden mi sembra l’autore che più ha chiarito il rapporto che lega questi funzionamenti.
G: Quanto dici è molto interessante perché pone molte domande rispetto al tema attuale delle analisi via Skype, motivo di discussione all’interno dell’IPA. Il fatto che paziente e analista non si incontrino fisicamente sottrae alla relazione elementi di corporalità.
M.C.: È una discussione che ho con i miei colleghi del nostro gruppo pavese. Comprendo la possibilità di fare delle supervisioni via Skype e su questo siamo d’accordo. Ma non sono molto propenso all’analisi via Skype perché, come affermi tu, ci sono elementi che mi mancano, come quelli che ho appena descritto, o altri come gli odori, o i borborigmi che non risparmiano neppure l’analista, invece loro sostengono che si scoprono altri elementi che io, sinceramente, ancora non riesco ad intuire. Parlano, ad esempio, della respirazione che si modifica… io ho bisogno di vedere anche gli altri elementi vissuti, più immediati. Ho bisogno di sentire la presenza sensoriale di entrambi e se possibile del campo in cui siamo immersi senza troppi filtri.
G: Quali sono le qualità che ritiene più importanti per diventare, essere e rimanere psicoanalista?
M.C.: Mi sento di potere dare un consiglio che reputo fondamentale: avere una grande attenzione a non lasciarsi colonizzare troppo presto da appartenenze teoriche, la qual cosa bloccherebbe il processo di conoscenza che deve rimanere aperto ad un ascolto multiplo, in attesa di percepire una sintonia con un modello che si senta come un buon vestito da indossare e comunque sempre con una prospettiva transitoria e mai come una fede definitiva. Sulla prima questione del DIVENTARE vorrei fare una piccola premessa. Non è qualcosa di collegato esclusivamente alle qualità del candidato ma anche all’ascolto dell’esaminatore e al suo essere persona libera e indipendente. La questione riguarda dunque anche i criteri di selezione, che dovrebbero avere una certa omogeneità. Non sempre è così. Provo dunque a mettermi nei panni dell’esaminatore, anche se tengo a dire che sono un membro ordinario della SPI, ma non appartengo a commissioni per la selezione dei candidati, e verificare, nel potenziale candidato, l’esistenza di alcune caratteristiche che adesso cercherò di enumerare: DIVENTARE a) L’esistenza di una buona permeabilità emotiva. Quindi avere un’attitudine conversazionale con le proprie emozioni. Un’assenza di difese eccessivamente strutturate che richiederebbero una verifica analitica più lunga e consistente prima di potere ambire alla prospettiva psicoanalitica. b) La disponibilità ad accogliere ed entrare in contatto con le proprie aree di sofferenza psichica prima ancora che con quelle degli altri. Solo in un secondo tempo potrà essere verificata e sviluppata la capacità di tollerare le identificazioni proiettive del paziente. c) La capacità di attendere che un senso lentamente si costruisca. In poche parole se esiste già un abbozzo di Capacità Negativa, sapere attraversare il dubbio senza esserne perseguitati. d) Un certo grado di tolleranza alle frustrazioni che sicuramente poi l’analisi personale deve poter migliorare e sviluppare ancora. e) Altrettanto importante è ascoltare e comprendere con quali racconti il candidato è riuscito ad organizzare il filo narrativo della propria vita e come ha affrontato gli elementi traumatici della propria esistenza. f) Tutti questi aspetti possono essere costruiti e migliorati oltre che con l’analisi, attraverso la frequentazione di altri interessi non specificatamente psicoanalitici come le letture di narrativa, l’ascolto della musica, un certo interesse per la pittura, la cinematografia e ogni altro interesse che si costituisca come campo sensoriale e metaforico da cui trarre elementi per dare nuovo senso all’incomprensibile e sviluppare la propria funzione alfa. Ascoltare quanto questi aspetti siano presenti nella vita di chi si candida a diventare analista, può essere un criterio importante. ESSERE Su questo aspetto la mia é una posizione molto radicale. Se si parla di psicoanalisi, l’analista esiste solo quando c’è un setting e un paziente o un gruppo di pazienti che chiede di fare una psicoanalisi con lui. Fuori da questa condizione non c’è psicoanalisi e non c’è psicoanalista. Si potrà parlare di psicoanalisi, fare esercitazioni relative alla psicoanalisi, ma tutto questo non sarà mai psicoanalisi. Tuttavia Essere è anche Continuare ad Essere, dunque la mia risposta include alcuni elementi che penso debbano rimanere costanti. CONTINUARE a ESSERE A proposito di continuare ad essere/fare lo psicoanalista, credo che voi con la dottoressa Nemas stiate già facendo in questa direzione una cosa essenziale: non isolarsi, avere un gruppo di riferimento e continuare a tessere la tela tra clinica e teoria in una condizione di condivisione. Questa ricerca credo non debba mai terminare. La ragione di ciò sta in un mio convincimento: LA MENTE DELL’ANALISTA NON PUO’ ESSERE CONSIDERATA UNA INVARIANTE DEL CAMPO. Essa è soggetta a variazioni e instabilità di vario grado, per questa ragione non possiamo smettere di occuparcene, da soli e in gruppo. A questo proposito il concetto di FRONTIERA EMOTIVA di Ogden può esserci molto utile. La prosecuzione di questo lavoro deve mostrare di avere introiettato profondamente la conoscenza dei propri limiti. Questo a garanzia propria e soprattutto dei propri pazienti, in particolare di quelli che ancora potranno chiedere di fare un’analisi con noi. Uno dei maggiori rischi è quello di costruire una difesa narcisistica che può uccidere quella parte curiosa, quella parte che in buona sostanza deve rimanere allieva. Un esperto psicoanalista, in occasione di un seminario di un collega americano che avrebbe anche incluso una supervisione di gruppo, al mio invito a presenziare così mi rispose: “Io le supervisioni le faccio ci mancherebbe che le facciano a me”. Quella risposta fu per me una buona indicazione per aggiustare negativamente i miei criteri di valutazione della vivacità mentale di quel collega. Non credo che l’essere diventato psicoanalista accrediti una volta per tutte le capacità e qualità che si richiedono per farsi carico e curare la sofferenza psichica. Dopo la formazione ufficiale, dovrebbero verificarsi alcune condizioni: 1) che non ci siano eventi traumatici nella vita dello psicoanalista che non siano stati in qualche modo elaborati, come un lutto, una grave malattia, un crollo della propria possibilità di mantenere economicamente se stessi e la propria famiglia. Tutti questi sono fatti certamente elaborabili, ma può accadere che una loro confluenza o particolari condizioni li rendano di difficile superamento a danno di una buona gestione della sofferenza dei propri pazienti. In queste situazioni l’analista deve poter trovare anche il coraggio di fermarsi per il tempo necessario o riprendere un’analisi che chiamerei di garanzia, oltre che di salute. 2) Mantenere un contatto attivo col gruppo dei colleghi tenendo alto l’interesse scientifico ed evitando isolamenti onnipotenti a mio parere molto rischiosi. 3) Avere una vita affettiva e sessuale soddisfacente che metta a riparo da quelle derive della cura che vanno a costituire poi vere patologie del campo talvolta non recuperabili. Alludo ai passaggi all’atto dell’analista che spesso accadono perché questi si trova in particolari momenti di esposizioni a fattori di forte frustrazione della propria vita, o allo scoprirsi di nuclei non analizzati che finiscono per entrare inconsapevolmente nella relazione analitica col paziente. In questi casi il gruppo può diventare un forte argine a tali non augurabili evenienze. Gabbard nel suo libro “Violazioni del setting” parla di un piano inclinato che se supera una certa pendenza causa quegli scivolamenti dai quali è molto difficile rientrare. Ci sono tante piccole avvisaglie che bisogna riuscire ad analizzare, come prolungamenti del tempo delle sedute non giustificabili, riduzione eccessive del proprio onorario, recuperi di sedute spostando altri pazienti e così via.
G: Lei è d’accordo sul fatto che lo studio della vita istituzionale e delle sue dinamiche potrebbe essere il quarto pilastro di cui lo psicoanalista dovrebbe occuparsi?
M.C.: Completamente d’accordo, è necessario lavorare anche in gruppi che si occupino delle dinamiche istituzionali. Certamente non credo che l’Istituzione Psicoanalitica, per il fatto stesso di essere formata da psicoanalisti, debba essere esente dalle dinamiche negative che troviamo in ogni Istituzione. Anzi ritengo che il processo di de idealizzazione nei confronti di tale istituzione, debba far parte di una delle conquiste dei giovani psicoanalisti, senza per questo dover cadere nell’opposto. Tuttavia ritengo che l’Istituzione Psicoanalitica sia in grado di fare un passo in più. Partendo da una maggiore consapevolezza di questi fatti, che certamente esiste, è possibile allenare e formare gli psicoanalisti, attraverso una diretta ed esplicita esperienza in gruppi che si occupano specificamente di sperimentare queste dinamiche, al loro riconoscimento e alla loro gestione, mitigando un certo clima paranoideo e liberando una maggiore disposizione ai cambiamenti rispetto a posizioni delle volte troppo ingessate.
G: Secondo lei, influiscono nella formazione psicoanalitica i cambiamenti socio-politici e culturali? Trova qualche differenza tra la formazione da Lei ricevuta e quella che ricevono i candidati nell´attualità?
M.C.: La risposta è certamente si. Influiscono nella formazione ma anche nel fare e continuare ad essere psicoanalisti. Le trasformazioni sociali e culturali globali e più locali che viviamo e stiamo attraversando hanno a che fare con due tendenze per un certo verso opposte. Da una parte uno sviluppo tecnologico che procede ad una velocità impressionante e che accredita la rapidità come un valore sociale centrale nella risoluzione di qualsivoglia problema, veloce è bello. Dall’altra la caduta delle ideologie intese in senso filosofico come studio positivo delle idee, ha ucciso una energia tesa alla continua riflessione sul senso della nostra vita, tematica che sempre meno viene affrontata, piuttosto si utilizzano meccanismi di difesa come la negazione, l’evitamento e la sostituzione con oggetti concreti da possedere a cui si affida una falsa ed effimera idea di personale realizzazione, di successo e autostima. Questi cambiamenti hanno incluso il rapporto con la sofferenza sia fisica che psichica all’insegna dell’evitamento del dolore o alla sua risoluzione in tempi rapidi. Se sul piano fisico questo è sicuramente un successo del progresso, sul piano della sofferenza psichica ha creato la necessità di trovare cure che promettono risultati immediati e, di conseguenza, la riduzione della nostra capacità di tollerare frustrazioni che consentirebbe una crescita mentale e una maggiore intensità affettiva ed emotiva della nostra esistenza. La psicoanalisi com’è di tutta evidenza non propone di certo modelli di evitamento ne tanto meno di negazione della sofferenza. Tuttavia oggi il tempo richiesto per la formazione analitica è mal tollerato. Sembra essere vissuto come un tempo incompatibile con le richieste del quotidiano. Ne è prova il proliferare di scuole di psicoterapia che spesso non chiedono l’obbligo di un’analisi o che reputano sufficiente una seduta settimanale sulla quale non esercitano nessun tipo di controllo. Come è del tutto ovvio tutto ciò ha ricadute sulla formazione proposta dagli Istituti di Trainig che stanno studiando applicazioni più ampie della psicoanalisi che prevedano anche setting diversi dallo standard, sviluppo che trovo comunque importante. La televisione che ho guardato io non è quella che hanno guardato i nostri candidati. In essa esisteva una forte componente narrativa che includeva un tempo di ascolto concesso al narratore. Io sono cresciuto ascoltando i grandi teleromanzi, come I Promessi sposi, I Miserabili che avevano forti rimandi ad elementi mitici, come la colpa, il perdono. La televisione degli anni 80 e 90 ha trasformato il racconto in azione, i miti in micromiti evanescenti, producendo a mio parere nei giovani una forte lesione dell’apparato per pensare che talvolta si esprime con le grandi e apparentemente inspiegabili esplosioni psichiche che hanno alla base futili motivi. In Italia l’era berlusconiana ha fatto il resto del danno addomesticando la mente della massa al ribasso, al degrado, con trasmissioni televisive dove il valore era indovinare quante palline conteneva un barattolo di vetro, o con giochi dove indovinare aveva per premio lo scoprirsi del seno di una donna. Tutto questo è paragonabile ad un intervento di anestesia della mente che ha come conseguenza la perdita della propria capacità di critica e di attenzione del piano politico.
G: Relativamente alla precedente domanda: Come valuta i cambiamenti che ci sono stati nelle condizioni lavorative degli psicoanalisti e il minor afflusso dei pazienti agli ambulatori?
M.C.: Gran parte della risposta sta nelle cose che ho detto prima, alcune delle motivazioni. Minor afflusso e cambio delle condizioni lavorative sono in qualche modo connesse tra loro. Quando ho iniziato a lavorare come psicoanalista i pazienti avevano una cognizione del tempo molto diversa da quella che vige oggi. Allora l’ostacolo nell’accettare l’indicazione all’analisi poteva essere per una parte quello economico, oggi é diventato anche quello del trovare il tempo. Delle volte la risposta é “ma io non ho il tempo per fare tutte queste sedute!” e badate talvolta sono solo due alla settimana. Altro fattore determinante e devastante é il proliferare di scuole di psicoterapia di vario genere, ma con forte prevalenza di modelli cognitivo comportamentali che promettono guarigioni rapide a prezzi scontati. Questa promessa si inserisce bene nelle trasformazioni sociali di cui abbiamo parlato e viene vista come valida scorciatoia più al passo coi tempi. Purtroppo sono terapie che si basano più su addestramenti, ammaestramenti che non hanno capacità trasformative del profondo come ha la psicoanalisi che può contare su un patrimonio teorico impareggiabile. Certamente noi abbiamo alcuni torti, ripeto, come quello di essere rimasti per troppo tempo su una torre d’avorio smettendo di intercettare i cambiamenti sociali che oggi ci obbligano a esplorare come la psicoanalisi o meglio il suo enorme patrimonio teorico, possa andare verso i luoghi dove c’é bisogno di cura e non solo attendere i pazienti nei nostri studi. Un’altra difficoltà sta nella trasformazione divulgativa della psicoanalisi. Non é così semplice diffondere il nostro discorso salvandone la complessità senza incorrere in banalizzazioni. Ma oggi c’é la volontà e la consapevolezza che bisogna tornare nelle università, nelle istituzioni dove ricominciare a parlare di psicoanalisi e non lo psicoanalese. C’é in corso uno sforzo di trasformazione comunicativa per arrivare all’orecchio di una massa di persone che potrebbero essere potenzialmente interessate.
G: Quali considera che sono le condizioni per creare una mente e una identità analítica? Secondo Lei, che rilevanza hanno l´analisi personale, le supervisioni, le esperienze di vita, le teorie, ecc.?
M.C.: Faccio fatica a pensare che una mente analitica possa essere creata. Non credo esista nessuna preparazione teorica o tecnica che da sola possa costruire uno psicoanalista. Deve esistere un substrato che motivi profondamente alla curiosità e alla cura per la propria mente, un qualche elemento di sofferenza, conscio o inconscio che sia, che funziona da innesco. Faccio un esempio. Questo innesco per me é stata una richiesta strisciante, iniziata molto presto, da parte di mia madre, di prendermi cura della sua depressione. Quello é stato il mio primo laboratorio che in seguito la vita e l’analisi hanno trasformato in una esperienza di disponibilità verso la sofferenza dell’altro. E’ su questa base, ma credo che ognuno conosca in qualche modo la propria, che può utilmente poggiare lo studio della teoria e della tecnica, che Ogden chiama la nostra ascendenza analitica in opposto al nostro stile analitico che é fatto di forte soggettività.
Clara Nemas: Oggi abitiamo un mondo di fantasia e non d’immaginazione. L’immaginazione richiede tempo, costruzione e spazio mentale, la fantasia è immediata.
M.C.: Hai toccato un punto che mi sta a cuore, la sensazione quotidiana è quella di avere il bisogno di fantasie precostituite che colmino continuamente lo spazio per pensare in modo autentico. 8 I nostri giovani non sono abituati al fatto che l’incertezza, il dubbio siano capacità che conducono a conoscenza, a scelte, anche se attraverso passaggi che possono attivare frustrazione quando non un certo dolore psichico. Credo che questa sia una lesione molto importante per l’apparato per pensare. Io ho un modello, il modello della sala d’attesa dove mettere le emozioni in attesa di poter essere digerite. Ci sono pazienti senza sala d’attesa e altri con una sala d’attesa molto piccola, sono persone che non hanno posto per emozioni in attesa, un posto in cui la funzione alfa possa agire sulle emozioni e trasformarle in immagini, le prime immagini, i pittogrammi, per unirli e costruire il pensiero onirico da cui successivamente si formano i derivati narrativi. Questo tema è stato sviluppato da Ferro in Italia e Rocha Barros in Brasile.
G: Per concludere, ci potrebbe dire come e quando decise diventare uno psicoanalista?
M.C.: Con molto piacere poiché rispondere mi rimette in contatto con gli elementi vivi e passionali della mia vita da giovane studente di medicina che contiene sia cambiamenti della mia vita amorosa, che amicale, che geografica e ovviamente professionale. A Pavia dove oggi vivo con la mia famiglia e lavoro come psicoanalista, mi hanno portato due cose: l’amore per una ragazza, adesso mia moglie, che studiava medicina a Pavia e il bisogno, già esistente, di studiare in una Università più attrattiva che non quella di Palermo. Allora, era il 1976, ero fermamente convinto di voler fare il chirurgo, professione che mi appassionava davvero tanto. Questo cambiamento geografico mi fece incontrare Antonino Ferro che si era trasferito anch’esso da Palermo a Pavia nel 1974 e stava completando il suo training analitico a Milano. Cominciai ad accompagnarlo nei suoi itinerari lavorativi in provincia. Ne nacque una profonda amicizia che tutt’ora prosegue. Iniziarono le prime letture freudiane assieme a lunghe conversazioni sulla psicoanalisi fino a far emergere in me il bisogno e desiderio di intraprendere un percorso analitico e insieme la scelta di fare la specializzazione in psichiatria. In particolare la psichiatria pavese, una psichiatria che teneva da sempre stretti rapporti con la psicoanalisi grazie alla figura di Dario De Martis, allora Direttore della Scuola di specializzazione in psichiatria e a quella di Fausto Petrella che favorivano molto una formazione psicoanalitica in tutti gli specializzandi. Molti di questi divennero anche psicoanalisti e io per mia fortuna tra questi. Il resto lo sapete già dalla mia risposta alla domanda sulla mia formazione.
Clara Nemas: Voglio sollevare una piccola questione: secondo quello che hai detto, la nostra lotta quotidiana è diventare noi stessi. Avere una mente propria, è ciò su cui lavoriamo con questo gruppo ed è per me motivo di gioia lavorare con i giovani che sono alla ricerca di un mente propria. Io cerco la mia propria mente e la mia propria voce tra i miei genitori e i miei oggetti interni e adesso tu sei uno dei miei oggetti interni…
M.C.: Sono molto felice e ti ringrazio per queste parole. Spero che il vostro gruppo possa venire a Pavia e conoscere il nostro Centro di Psicoanalisi e organizzare dei seminari ad hoc. Saremo felici di ospitarvi.