Review
Violenza e voyeurismo: le immagini pedopornografiche in internet
Abstract: The author, starting from psychological, neuroscientific, and sociological research on the effects of violence on television, proposes an examination of research on the effects of exhibitionist behaviour on the Internet, especially among adolescents. These attitudes, which are often linked to a typical indecisive adolescent sexuality and a need for identity reassurance, in turn facilitate child pornography, which can lead to actual paedophile abuse. The article reiterates the gratuitousness of childish desire and its playful significance, which cannot be short-circuited in a sexual relationship with an adult.
Keywords: Violence, Voyeurism, Television, Child pornography, Virtual, Internet
Abstract: L’autore, partendo dalle ricerche di ordine psicologico, neuroscientifico e sociologico a proposito degli effetti della violenza in televisione, propone una disamina delle ricerche sugli effetti dei comportamenti esibizionistici in Internet soprattutto degli adolescenti. Tali atteggiamenti, spesso colllegabili a una tipica sessualità indecisa adolescenziale e a un bisogno di rassicurazione identitaria, loro volta, facilitano la pedopornografia, che può sfociare in concreti comportamenti pedofili abusanti. L’articolo ribadisce la gratuità del desiderio infantile, il suo significato ludico che non possono essere cortocircuitati in una relazione sessuale con l’adulto.
Parole chiave: Violenza, Voyeurismo, Televisione, Pedopornografia, Virtuale, Internet.
1. Introduzione
Durante il confinamento determinato dalla pandemia COVID-19, si è verificato un incremento di visualizzazioni di siti pedopornografici da parte di adulti e adolescenti, ma anche di immagini sexy postate da adolescenti e, contestualmente, un incremento di casi di abusi di minori successivi all’adescamento per via telematica. Uno studio del fenomeno in atto e delle sue cause psicopatologiche non può non tenere conto di quanto è andato consolidandosi nel passato recente in termini di esposizione dei minori alla violenza. Pertanto, per affrontare e contestualizzare storicamente il tema della pedopornografia in Internet, credo che valga la pena riprendere alcune ricerche sulla violenza in televisione.
2. Materiali e Metodi
2.1. La violenza in televisone
I bambini, stando molte ore come ipnotizzati davanti al televisore o davanti al computer, rischiano di imbottire le loro menti con le immagini di quei comportamenti violenti, cominciati con i cartoni animati giapponesi e via via diventati sempre più sofisticati. Già negli anni venti, il grande regista Sergej M. Ejzenštejn aveva collocato il linguaggio cinematografico nell’ambito del pensiero infantile e primitivo e segnalato l’effetto ipnotico della TV, che consiste in una sospensione temporanea della coscienza [1].
Uno studio apparso su «Science» [2] contraddice, però, il luogo comune secondo il quale la violenza in video influenzi soltanto i bambini. Lo studio evidenzia gli effetti negativi anche su giovani adulti. In base a tale ricerca, è plausibile l’ipotesi che sia la televisione a favorire l’aggressività, se non la distruttività nei ragazzi, piuttosto che siano i ragazzi aggressivi a guardare preferibilmente spettacoli televisivi violenti. Lo scrittore Pietro Citati [3] scrive che la televisione, attraverso una sorta di reificazione visuale, uccide la rapidissima fantasia analogica del bambino, il suo vorticoso potere di astrazione logica, il senso del comico, del paradosso, dell’assurdo, dell’insensato, il dono dello sguardo su altri mondi, dell’appartenenza ad altri mondi.
Jeffrey G. Johnson e i suoi collaboratori della Columbia University e del New York State Psychiatric Institute sono andati oltre le pur condivisibili valutazioni soggettive dello scrittore italiano e hanno seguito 707 ragazzi dall’adolescenza all’età adulta, constatando che gli adolescenti abituati a passare un’ora o più al giorno davanti al teleschermo in prime time. si abbandonavano più facilmente, intorno ai vent’anni di età, ad atti aggressivi verso altre persone. Il legame tra tempo trascorso a guardare la televisione e condotta violenta restava significativo anche in relazione ad altri fattori, quali precedenti comportamenti aggressivi, basso reddito familiare, scarsa cura da parte dei genitori, presenza di disturbi psichiatrici. Il comportamento aggressivo più comune nei maschi era la violenza fisica, mentre nelle femmine sono emersi anche il furto e la minaccia. Solo il 5,7% dei giovani che hanno guardato la televisione meno di un’ora al giorno negli anni seguenti ha commesso atti di violenza, contro il 28,8% di coloro che l’hanno fatto per oltre tre ore al giorno.
Craig A. Anderson e Brad J. Bushman [2] del Politecnico dello Iowa commentano i dati del lavoro di Johnson e colleghi, affermando che la gente non sembra percepire pienamente il pericolo rappresentato dalla violenza in televisione. I ricercatori sostengono che con il legame tra violenza televisiva e violenza giovanile si ripete lo schema fumo-cancro: il rapporto tra sigarette fumate e insorgenza di tumori continua a essere messo in discussione anche ora, cioè molto tempo dopo che la comunità scientifica ne ha accertato l’esistenza al di là di ogni ragionevole dubbio.
Un’altra ricerca, effettuata presso l’Università del Michigan [4] e apparsa su «Developmental Psychology», la rivista dell’American Psychological Association, ha riesaminato 329 ragazzi e ragazze allora ventenni, già esaminati nel 1977 a un’età compresa tra i sei e i dieci anni. I risultati hanno mostrato che la visione di spettacoli televisivi violenti da parte di bambini, la loro identificazione con personaggi aggressivi dello stesso sesso e la percezione che la violenza in televisione sia realistica sono tutti eventi collegati ad atti di aggressività, compiuti da adulti, sia nei maschi sia nelle femmine, indipendentemente dal grado di aggressività iniziale, dalle capacità intellettuali, dallo status sociale della famiglia (misurato in base al grado di istruzione e all’occupazione dei genitori) e dall’aggressività dei genitori stessi. La ricerca ha inoltre evidenziato che, se i genitori guardano e commentano i programmi con i figli, la condivisione sembra ridurre gli effetti nocivi della violenza televisiva sul bambino, probabilmente perché riduce l’identificazione del bambino con la persona che compie l’atto di violenza.
A questo proposito Bruno Bettelheim [5] ha tenuto un atteggiamento critico nei confronti dei denigratori della televisione, sostenendo che bambini e ragazzi hanno bisogno di materiale su cui basare le loro fantasticherie di aggressività e di rivalsa, in cui poter vicariamente agire i loro sentimenti ostili senza fare male ai genitori. “Purché gli faccia da guida un adulto responsabile – scrive Bettelheim [5, p. 176] – non esiste praticamente programma dal quale il bambino non possa imparare molte cose. Non fanno eccezione neppure i programmi che contengono scene di violenza, purché il bambino non sia talmente in preda all’angoscia o alla collera da venire completamente sopraffatto da quello che vede”.
Probabilmente di fronte all’efferatezza e alla distruttività di alcune immagini che oggi passano in televisione e, ancora di più in Internet, Bettelheim rivedrebbe le sue ottimistiche considerazioni, pur restando d’accordo in ogni caso sulla necessità della presenza protettiva dei genitori.
Nel 2011 Yang Wang e colleghi [6] della School of Medicine dell’Università dell’Indiana, hanno presentato all’incontro annuale della Società di Radiologia del Nord America una ricerca secondo cui i videogiochi violenti inducono trasformazioni di lungo periodo nel funzionamento cerebrale. Hanno chiesto a 11 uomini tra i diciotto e i ventinove anni di giocare per una settimana dieci ore al giorno a un videogioco particolarmente violento. Quindi è stato loro chiesto di evitare di giocare con quel videogioco la settimana successiva. Ad altri undici uomini, usati come campione di controllo, è stato chiesto di astenersi del tutto dall’uso del videogioco nelle stesse due settimane. Alla fine del periodo l’attività cerebrale dei ventidue soggetti è stata esaminata con la risonanza magnetica mentre rispondevano a due tipi di test, uno volto a misurare la risposta emotiva a parole violente e l’altro a misurare l’autocontrollo. La risonanza magnetica ha mostrato che nei soggetti esposti al videogioco l’attività nella parte inferiore sinistra del lobo frontale e nell’area del circuito cingolato anteriore era minore rispetto a quella riscontrata nei soggetti di controllo. Quelle due aree cerebrali servono a controllare la risposta emotiva alla violenza e all’aggressività. Pertanto chi aveva giocato a lungo sembrava più propenso all’esercizio della violenza. Non si tratta soltanto di un dato psicologico ma, secondo i ricercatori, di uno stabile cambiamento cerebrale che determina un’attitudine altrettanto stabile alla violenza.
2.2. Le immagini pedopornografiche in internet
Vorrei sottolineare anche che, se da una parte la costituzione di uno scenario perverso ha sicuramente un’origine personale e individuale connessa a una peculiare drammatizzazione e maniacale «riparazione» del trauma originario ed entra in relazione con le dinamiche familiari e microsociali, dall’altra esiste però uno rischio specifico di indicibilità di atteggiamenti abusivi da parte dei media.
Internet non è soltanto uno spazio che offre nuove risorse in termini di creatività e di possibilità di relazione, ma frequentemente si pone come uno strumento di visualizzazione degli aspetti più oscuri e meno integrati della personalità del singolo. Esso si offre quindi all’utente come un’area immaginativa complessa, un teatro quasi onirico, quasi delirante: non solo buono e contenitivo, ma a volte pericoloso e rischioso.
Le nuove tecnologie hanno reso possibile creare e abitare interi universi di esperienza slegati dalle dimensioni materiali e concrete, delineare spazi tra la mente e la realtà, amplificare ed estendere facoltà psichiche e sensoriali, tanto da far definire questo nuovo spazio “tecnologia della mente o psicotecnologia” [7].
“Queste nuove tecnologie, funzionando talvolta come vere e proprie protesi psichiche, possono consentire di espandere, in modo pressoché illimitato, le dimensioni di un’esperienza che è virtuale, ma al tempo stesso realistica, aprendo così a nuovi campi dell’esperienza e del funzionamento mentale che non possono che interrogare le discipline che si occupano della mente. La tecnologia virtuale, rendendo sfuocata la differenza tra ciò che è oggettivo, ciò che è soggettivo e ciò che è illusorio, agisce inevitabilmente in senso trasformativo sulla nostra modalità di pensiero. La realtà virtuale stravolge le categorie di spazio e di tempo, le connessioni e le condizioni su cui si costruisce la nostra soggettività; di conseguenza le nostre idee riguardo alla realtà devono essere costantemente riviste, dal momento che la realtà virtuale, come dice Umberto Eco, si finge più reale della realtà stessa” [8].
Per alcuni pazienti l’uso di Internet potrebbe avere la funzione di dare espressione e formulazione ai conflitti inconsci, mostrando parti di sé che altrimenti rimarrebbero nell’ombra [9], favorendo “la costruzione di una specifica forma di realtà, che corre il rischio di partecipare all’onirizzazione del mondo esperienziale e ad alimentare logiche immaginative essenzialmente emotive e deliranti nello spettatore passivo” [10].
Spesso in casi clinici di pazienti dediti alla visione di immagini pedopornografiche, la mancanza di un percorso di individuazione e soggettivazione a causa di una vera e propria cecità dei caregivers, talvolta anche in relazione a abusi sessuali subiti nell’infanzia e/o nell’adolescenza, favorisce una predisposizione a una visione senza partecipazione emotiva, in cui l’eccitazione sessuale può avvenire solo in presenza di un oggetto inanimato, deumanizzato, come oggettivati e “non visti” si sono sentiti questi pazienti.
In un caso è stato possibile osservare una vera e propria dipendenza da Internet, con la presenza di sintomi depressivi e comportamenti compulsivi caratterizzati da continui controlli di nuove foto postate sui social network. Si trattava per lo più di scene di bambini in età scolare in pose erotiche, fotografati da adulti. L’erotizzazione perversa sembra essere l’unica strategia possibile come sostituto della vita non vista e quindi persa. Il collezionismo di file, la compulsione nello scaricare nuove immagini che vengono consumate prima che possano evocare emozioni, mantengono alta una carica eccitatoria che vicaria la necessaria assenza di emozioni.
Il confine tra animato e inanimato, una volta contraddistinto dall’antica pietas, viene a mancare; il dolore non viene percepito nella sua essenza, la morte non ha più nulla di sacro e di tremendo, ma appartiene soltanto all’ordine del pornografico. L’epopea del macabro si sviluppa tra patetismo e cinismo; il tutto viene omologato in una circolarità discorsiva senza rilevanza, dove ogni cosa diviene equivalente e resta indifferente in presenza di un flusso continuo e interminabile di stimoli insensati o, quantomeno, tra loro intercambiabili. Si viene a creare una forma speciale di violenza: l’opacità dell’indifferenza, dell’apatia, che deriva dall’assuefazione a immagini moltiplicate, ripetute, se- riali, in cui l’altro non è più persona, ma solo corpo, nuda vita. Il male si diffonde alla superficie delle nostre vite, le imbeve di sé, diviene qualcosa del quotidiano. Non fa più scandalo [11]. Possiamo parlare di analfabetismo emozionale e di inadeguata percezione di sé, descrivendo i fruitori di immagini pedopornografiche come ex bambini distaccati da tutto, perché distaccati da sé e spaventati dagli incontri veri, dove gli altri rischiano di esistere davvero [12].
Joyce McDougall [13] riprende in psicoanalisi il termine di derivazione greca «alessitimia» (a-lexis e thymos), introdotto da John Nemiah, Harald Freyberger e Peter Sifneos nei primi anni settanta: significa «assenza di parole per le emozioni» e contraddistingue la difficoltà a identificare e descrivere i propri sentimenti e le proprie emozioni, a discriminarli differenziandoli gli uni dagli altri, e a comunicarli. Sifneos [14] allarga in concetto di alessitimia, evidenziando anche la difficoltà dell’alessitimico a differenziare i sentimenti dalle sensazioni corporee, dalla notevole povertà di fantasie e da quelle modalità di pensiero concreto che Pierre Marty e Michel de M’Uzan [15] hanno definito pensée opératoire («pensiero operatorio»). Questa difficoltà, si ripercuote ovviamente anche sulla capacità di descrizione, comprensione e discriminazione dei sentimenti e delle emozioni degli altri.
“La preoccupazione e il rimorso – scrive Edoardo Albinati [16] – possono nascere solo dalla capacità di immedesimarsi, una facoltà immaginativa, proiettiva, che loro non possiedono”.
Claudio Magris [17] descrive la costituzione di una nuova forma dell’Io, non più compatto e unitario, bensì costituito da una molteplicità di nuclei psichici e di pulsioni non più imprigionate nella rigida corazza dell’individualità e della coscienza. Francesco Barale e Anna Ferruta [18] parlano di “maschere iperboliche di una soggettività instabile e disseminata, all’interno della quale non è più riconoscibile alcun ‘nucleo’ e di conseguenza alcuna distinzione tra vero e falso Sé; ma solo Sé aperti, che prendono forma e si organizzano, disorganizzano nelle relazioni in atto; identità provvisorie”.
In una società in cui le figure del postmoderno, quali il vuoto costitutivo e la decostruibilità di ogni identità, si sposano con l’assenza del limite, fortemente determinata dalla virtualità delle esperienze comunicative, si rende necessario rimettere in discussione i nostri modelli teorici sullo sviluppo psicosessuale in cui prevalgono “sequenze lineari e necessarie invece di reticoli percorsi da movimenti plurali di “va e vieni” in cui si compongono e scompongono organizzazioni esposte a continue riorganizzazioni” [18].
“Oggi la realtà, sempre più ‘virtuale’, è lo scenario di questa possibile mutazione dell’Io” [17].
Un’immagine esterna, un “paesaggio” proposto a livello iconico o genericamente rappresentativo, può talvolta assumere una funzione organizzativa nei confronti di spinte di sessualizzazione indifferenziata. Sulla sessualizzazione border, caotica come la personalità sottostante e disorganizzata in isole di aggregazione psichica, l’estesa messe di immagini proposta dai media, e soprattutto quelle pornografiche, distribuite con un dichiarato intento captatorio attraverso Internet, può fungere da catalizzatore di uno scenario erotizzato interno pseudointegrativo; la possibile, successiva pretesa di co- stringere la realtà esterna a omologarsi allo scenario interno può dare seguito al rituale perverso, costituendo al contempo una sorta di diga nei confronti di una estesa perdita della realtà stessa, quale avverrebbe nello scompenso psicotico. L’esterno in altre parole potrebbe fornire rappresentabilità specifica a spinte disorganizzate in cerca di un’aggregazione rappresentativa [19].
Queste e argomentazioni vanno estese anche alla sessualità indecisa di molti adolescenti, per i quali tutte quelle forme di comunicazione attraverso il Web possono indurre atteggiamenti e comportamenti emulativi, in cui l’imitazione da sola non può essere sufficiente a spiegare l’intensa adesione identificativa spesso presente.
Una ricerca svolta nel 2010 [20] dall’Istituto di Analisi e Ricerche di mercato IPSOS per conto dell’associazione Save the Children su Sessualità e Internet: i comportamenti dei teenager italiani mostra che l’8% degli adolescenti italiani che navigano in Internet ammette di inviare foto in cui appaiono nudi o in pose sexy. E per metà si tratta di ragazzini tra i dodici e i quattordici anni; per metà tra i quindici e i diciassette. Ma, di fatto, le percentuali devono essere più alte, se il 22% del campione preso in esame afferma che tale pratica è diffusa tra i propri amici coetanei. Quando si chiede a che età è stato inviato il primo messaggio un po’ osé, il 47% riconosce di averlo fatto tra i dieci e i quattordici anni, gli altri dai quindici in su. Queste modalità di esibizione dei propri corpi in rete, in relazione al bisogno di riconoscimento e di conferma nell’età incerta della pre-adolescenza e dell’adolescenza, ha favorito il dilagante fenomeno della pedopornografia digitale. Per ridurre il rischio dell’adescamento seduttivo in rete, attraverso offerte perverse mascherate d’amore, non basta certamente che i genitori mettano in atto le pur necessarie procedure tecnologiche di controllo dei cellulari e dei computer dei figli, ma è assolutamente centrale un dialogo continuo e sincero con loro, per rafforzarne l’identità e la fiducia in sé stessi.
Tali argomentazioni vanno però dialettizzate, assunte cioè in oscillazione con un fenomeno di segno opposto. Alcuni, per esempio, sostengono che la visione di video con scene di sesso pedofilo potrebbe arginare la violenza, tenere a bada possibili passaggi all’atto, attraverso il consumo voyeuristicamente passivo del sesso virtuale, che saturerebbe le richieste pulsionali, depotenziandole. Queste considerazioni, però, non tengono conto del rischio che la pedopornografia possa da un lato alimentare il perverso mercato delle immagini di nudi infantili e dall’altro possa essere l’anticamera di fenomeni di pedofilia conclamata, come spesso è successo [21].
Come spesso accade, ci troviamo di fronte a fenomeni complessi la cui decifrazione può essere affidata soltanto alla presa d’atto della compresenza di meccanismi non univocamente direzionati e in oscillazione tra loro, che vanno approfonditamente osservati nelle specifiche situazioni cliniche.
Per Luciano Floridi [22] le due abitazioni online e offline non sono semplicemente sovrapposte, in quanto il loro confine è sempre più confuso: il mondo digitale trabocca nel mondo analogico offline, con il quale si va mescolando. Floridi definisce questo fenomeno come esperienza onlife, in cui i due mondi sono ormai inseparabili.
Internet, che pure è un formidabile strumento di conoscenza e di intrattenimento, rischia di portare alle estreme conseguenze il processo di deanimazione dell’uomo e di desimbolizzazione degli avvenimenti che lo riguardano, mediante modalità di equazione simbolica sovrapponibili a quelle descritte da Hanna Segal [23] per il pensiero psicotico.
La difficoltà a discriminare l’animato dall’inanimato, il reale dal virtuale, il dominio del computer come allenamento al controllo dell’altro, vissuto come devitalizzato, incapace cioè di emozioni e sentimenti, se non quelli che narcisisticamente gli vengono attribuiti, possono costituirsi come elementi forieri di un ritiro autisticamente onnipotente.
Nessuna richiesta di censura da parte mia, anche perché sono convinto che non porterebbe ad alcun risultato utile, ma una richiesta di riflessione collettiva sul rischio che un uso così massiccio e spesso distorto del web comporta sulla capacità di discriminazione tra fantasie infantili ed elementi della realtà attuale, sulla possibilità di differenziare l’animato dall’inanimato, sulla capacità di distinguere il reale dal virtuale. È un problema che devono porsi tutte le agenzie educative, famiglia, scuola, istituzioni religiose, associa- zioni culturali e sportive, senza demonizzazioni antistoriche, ma anche senza concessioni a uno pseudo-modernismo à la page.
Negli ultimi tempi gli atteggiamenti seduttivi delle adolescenti possono sostanziarsi nel fenomeno delle Candy Girls, ragazzine che si spogliano davanti alla webcam o che vendono le proprie immagini in atteggiamenti erotici e sessuali. Giocando a fare le adescatrici in Internet, finiscono per correre gravi rischi e diventare vittime a loro volta di abusatori. Alcune bambine prepuberi in analisi possono presentare un atteggiamento vanitoso, sensuale, seduttivo. Si tratta in genere di un comportamento stereotipato e senza consistenza. Si può parlare di una difesa del tipo “falso sé” che cerca di coprire conflitti interni e difficoltà ad acquisire nuovi modelli di identificazione [24].
“La rivendicazione pulsionale come affermazione gioiosa è un’invenzione fantastica che sostiene un formidabile diniego”, sottolinea André Green [25].
Da una ricerca realizzata dall’istituto di analisi e ricerche di mercato IPSOS per l’organizzazione “Save the Children” in occasione del Safer Internet Day 2014 [26], la giornata dedicata dalla Commissione Europea alla sensibilizzazione dei più giovani ad un uso corretto e consapevole della rete, risulta che il 38% degli italiani adulti intervistati ritiene accettabile il sesso tra adulti e adolescenti. Dall’indagine, realizzata su un campione di circa mille soggetti tra i venticinque e i sessantacinque anni, emerge che il 28% degli adulti iscritti a un social network ha tra i propri contatti adolescenti che non conosce personalmente. L’81% degli intervistati pensa che le interazioni sessuali tra adulti e adolescenti siano diffuse trovino in Internet il principale strumento per iniziare e sviluppare la relazione, che può sfociare in un incontro fisico. Il 41% del campione ritiene responsabili i ragazzi dell’iniziativa di contatto, anche perché considerati più disinvolti nell’approccio con gli adulti (48%) e sessualmente più precoci (61%) rispetto al passato. E sebbene il 36% pensi che gli adolescenti siano impreparati a gestire una relazione sessuale con un adulto, per un intervistato su cento questo tipo di rapporto potrebbe essere formativo per il minore.
Il concreto del possesso senza differimento alcuno ha la sua valenza seduttiva in una deriva in cui tutto può equivalersi, omogeneizzato nell’unico bisogno che va onorato: quello di afferrare, di dominare, di possedere, di avere piuttosto che di essere. L’avere non coincide più con l’essere, e non si riconosce più che è solo l’accettazione del finito a dare la possibilità di schiudere orizzonti infiniti, sanando la contrapposizione soggetto-oggetto, interno- esterno, natura-cultura.
Per Serge André [25, p. 5], “chi non è colpito dal constatare che l’esempio della nostra città ideale viene proposto sotto due versioni, due immagini standardizzate che fanno coppia come un duo d’opera: Disneyland e Las Vegas? Da un lato, il mondo del bambino, immaginato come un adulto miniaturizzato, dall’altro il mondo dell’adulto immaginato come un eterno bambino. Noi siamo entrati, senza accorgercene, in una vera e propria idolatria del bambino, nell’’infantolatria’”.
3. Conclusioni
In opposizione all’anonimato e al segreto in cui le perversioni sono state fino a poco tempo fa relegate, l’organizzazione sociale della pedofilia e la richiesta di visibilità, come fenomeni nuovi della nostra epoca, l’intreccio personale e sociale sinistro qui in gioco sono troppo complessi anche per essere solo compresi dalle limitate risorse di uno psichiatra o di uno psicoanalista. La perversione, alla continua ricerca di una conferma sociale che la renda presentabile, in quanto accettata come una delle varianti della sessualità odierna, è indice di una degradazione della vita civile, dove la necessaria e matura tolleranza è stata sostituita dalla licenza, dal misconoscimento dei limiti e delle loro linee di demarcazione e, soprattutto, dall’indifferenza, intesa come indifferenziazione e pseudo-normalizzazione della perversione e del disordine civile ed etico di una popolazione o di una collettività più o meno estesa.
Si richiede allora uno sforzo congiunto di molti studiosi delle varie forze in gioco: certamente, assieme allo psicoanalista, anche il sociologo, l’educatore, ma soprattutto il politico e il legislatore. Questi ultimi hanno il compito, interpretando i nuovi fenomeni sociali e proponendo nuove leggi, di proteggere l’individuo e la comunità, armonizzando dinamicamente l’esigenza individuale con quella del vivere collettivo. Contro mercanti e clienti di bambini è stato di recente approvato in Italia un testo di legge che prevede inasprimenti delle sanzioni per gli sfruttatori dell’infanzia, la punibilità per chi compie reati sessuali anche all’estero e per il cliente di minorenni al di sotto dei sedici anni. Multe e soldi confiscati al mercato pedofilo andranno in un apposito fondo destinato a finanziare programmi di prevenzione, assistenza e recupero dei bambini vittime.
Oggi costruire una cultura del rispetto dell’integrità del bambino non è facile e rischia di avere buon gioco la propaganda pedofila quando contrappone alla mercificazione del bambino e dei suoi sentimenti l’attenzione ai suoi desideri, compresi quelli sessuali, definiti naturali e non reprimibili. In realtà, per il pedofilo l’incontro sessuale è la ripetizione di un rito costruito nella propria immaginazione con una precisione che nulla ha a che vedere con la spontaneità e la libertà caratterizzanti l’onnipotenza infantile, che è il regno della potenzialità e della creatività.
La risposta all’argomentazione pedofila deve essere la chiara proposizione della natura del desiderio infantile, la sua gratuità, il suo specifico linguaggio, il suo autonomo significato ludico, che non può essere cortocircuitato in una relazione sessuale con l’adulto, pena la devitalizzazione di tale desiderio, la morte della fiducia nei grandi, che non capiscono e non sono in grado di tradurre il linguaggio dei sensi e dei sentimenti dei bambini, appiattendolo sul proprio linguaggio passionale [27].
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