In questi giorni a Pavia, come di consueto alle soglie dell’estate, è arrivato il Luna Park. Mentre accompagno le mie figlie, rinunciando un po’ a malincuore alla quiete di casa, sento di immergermi in un caos di gruppo dove i rumori, gli odori e i colori si confondono tra loro, così come le persone che si accalcano. Le giostre, molte delle quali mi appaiono oggi piuttosto vertiginose, si muovono roteando come centrifughe. In uno stato trasognato e un po’ stordito, mentre mi guardo intorno, mi viene in mente un passo del capitolo di Michele Bezoari che ho riletto recentemente nella raccolta “Contengo moltitudini”. Il titolo del capitolo è: “Forme di gruppalità nel campo analitico duale. Una prospettiva postbioniana”. A metà del lavoro, l’analista – che è stato anche il “mio analista”, penso con affetto – racconta di un’esperienza clinica di diversi anni fa che fu per lui “molto istruttiva” nel comprendere meglio alcuni aspetti del modello di campo analitico di cui, insieme ad altri, sta contribuendo a orientare gli sviluppi.
L’esperienza clinica descritta riguarda l’analisi della paziente D. che aveva l’impressione, in una vita sempre in affannosa ricerca di un baricentro, di “vivere dentro una centrifuga”. Bezoari descrive, con la consueta capacità di dipingere con poche accurate pennellate narrative i tratti salienti di una situazione complessa, le vicissitudini analitiche dei primi anni di terapia che sembravano aver consentito al setting di diventare un luogo sufficientemente affidabile. Ma è proprio in quel momento che si inizia a ballare di più! (Diffidare da analisi in cui non si balla almeno un po’, penso). La paziente inizia, infatti, una turbolenta e rischiosa relazione con un uomo problematico e tossicodipendente: l’analista si sente sempre più preoccupato e spinto ad abbandonare una posizione sospesa per intervenire in modo più concreto a protezione della vita della donna; lo stesso setting viene messo in crisi e si trova a rischio di collasso. Ma il setting regge, alcuni assetti si modificano, e il compagno della paziente può infine essere curato in una comunità terapeutica. Un sogno condiviso in seguito dà un contributo importante, forse decisivo, in quella fase di analisi, ci racconta Bezoari. La paziente sogna di trovarsi in una stanza con molte altre persone, c’è grande confusione ed una forza invisibile tiene tutti con le spalle al muro. Forse una forza centrifuga! Attraverso un “secondo ascolto” dentro il campo viene rimemorata una giostra del luna park, di cui l’analista da ragazzo fece esperienza, il Rotor. La giostra roteava su se stessa sempre più velocemente fino a quando il pavimento non veniva aperto. Grazie alla forza centrifuga, le persone accalcate e spinte contro le pareti non cadevano! “La drammatica turbolenza che aveva caratterizzato l’ambiente originario della paziente e le difese messe in atto per sopravvivere in quelle condizioni avevano dato la loro peculiare impronta al campo analitico. Una trasformazione evolutiva era diventata possibile soltanto dopo l’esperienza condivisa di queste dinamiche e lo sviluppo di una funzione onirica di coppia che la paziente ha potuto via via interiorizzare. Per costituirsi come comunità terapeutica il campo ha dovuto prima riprodurre e ospitare al suo interno la centrifuga. Un ambiente-centrifuga, che dava la sua impronta invisibile ai soggetti, agli oggetti e alle relazioni, ha potuto infine essere rappresentato, pensato e modificato, grazie ad un contenitore analitico che, pur rischiando il collasso, ha resistito alle intense sollecitazioni cui era sottoposto.” conclude Bezoari.
In questo scorcio clinico possiamo vedere come i complessi concetti descritti, con rigore filologico, nei paragrafi precedenti, sono declinati nel vivo del lavoro psicoanalitico. Vengono infatti delineati, inizialmente, alcuni dei contributi teorico clinici ai quali il modello del campo postbioniano è debitore: dalle radici barangeriane, ai contributi della psicologia sociale di Lewin, alla filosofia di Merleau-Ponty, al passaggio attraverso Bion e al proprio modo originale di concepire il campo e il gruppo, a Corrao, fino agli “aggregati funzionali” descritti insieme con Ferro negli anni ‘90.
Nell’ultima parte dell’articolo l’analista accompagna il lettore in speculazioni teoriche affascinanti e un po’ vertiginose. Con il consueto stile sobrio, sforzandosi di esporre con chiarezza rassicurante scorci teorici a picco sul modello di campo, Bezoari ci conduce su strade che ad uno sguardo non distratto sembrano aprire nuove prospettive. Attraverso una valorizzazione di Gilbert Simondon, allievo di Merleau-Ponty, che si avvale della nozione di campo, viene descritto il concetto di transindividuale e di equilibrio metastabile. Vengono poi esplorati il concetto di atmosfera, rileggendo alcuni passi dell’opera di Bion, e di spazio beta. Alcune caratteristiche degli elementi beta e della loro importanza nella costituzione dell’ambiente analitico vengono prospettate; infine, viene data una rilettura, diciamo un secondo sguardo, alla regola fondamentale, al celebre passo bioniano che invita a “sospendere memoria, desiderio, comprensione e percezione sensoriale” e all’idea di reverie di coppia. “La ridefinizione del metodo” scrive infine Bezoari “è funzionale alla realtà che si cerca di rendere osservabile e modificabile nella situazione analitica. Realtà che per Bion coincide con l’esperienza emotiva o, per essere più precisi, con l’esperienza emotiva in divenire.”
Mentre riemergo da questi pensieri mi riguardo intorno, respiro l’aria di questa primavera pavese, odore di pioggia appena caduta e di zucchero filato. Oscillo tra una sensazione di spaesamento, di fatica a riconoscere la bellezza del caos che mi circonda (forse, di un’esperienza emotiva in divenire), eun’esperienza esteticache ha qualcosa di nuovo e di interessante. Ma non so come, sento che c’è della bellezza in tutto quel caos rotante che, a inizio serata, mi sembrava un eccesso sensoriale quasi intollerabile. Non so bene perché, ma insieme al lavoro di Bezoari, mi viene in mente, forse in soccorso, anche la mostra di Gabriele Basilico e di Gunter Pusch che ho da poco visitato al palazzo del Broletto a Pavia, “Esplorazioni di fabbriche”. Lo sguardo sulla città in trasformazione che hanno dato questi artisti, riuscendo a scorgere una bellezza nuova in periferie di cui non conoscevamo ancora nulla, nella zona delle fiere dove anche questo Luna Park è installato, nelle fabbriche dismesse negli anni sessanta e settanta, nelle nuove strade, assomiglia forse al secondo sguardo che Bezoari riesce ad introdurre nelle vicende cliniche in un modello di campo, mi sembra in trasformazione. Buona lettura.
Davide Broglia