2° Congresso del Centro Psicoanalitico di Pavia- 26 settembre 2015 – Pavia, Aula del 400, Università di Pavia.
Gli strumenti della cura in Psicoanalisie Psicoterapia
Report di Rosamaria Di Frenna
Il congresso si è svolto il 26 settembre 2015, nell’Aula del 400 dell’Università di Pavia. Il tema dell’esplorare i cambiamenti negli strumenti di lavoro dati oggi all’analista, ha visto gli interventi di Fausto Petrella, Vincenzo Bonaminio, Giuseppe Civitarese, Elena Molinari, Antonino Ferro, e numerosi altri dalla platea. Chairman Michele Bezoari,e Vanna Berlincioni. L’atmosfera all’interno della grande aula è stata aperta, colloquiale e viva, potrei dire: un campo felice, nutriente.
L’introduzione di Fausto Petrella ha portato i pensieri sui “massimi e minimi strumenti della cura”. Per Petrella il Congresso di Boston ha in parte eluso il tema, occorre maggiormente “stare sul pezzo”, -ha detto- senza dimenticare le modificazioni degli stili di vita e la conseguente babelizzazione, della psicoanalisi. La metafora del quadro appeso alla parete, per il quale è necessario il pennello all’artista e il chiodo per appendere l’opera, viene ripresa per specificare cosa si intende per strumenti. Non si può certo dipingere col martello o appendere un quadro con un pennello. E dunque quali sono i ferri del mestiere? Per quali finalità della cura? E’ vero che quando curiamo non siamo mai soli, le teorie, le voci di Freud, Winnicott, Bion ecc, aleggiano nella mente analista; ma non nel lavoro clinico, perché si può intendere il lavoro analitico come un bricolage, come un tessuto (viene proiettata l’immagine di un uomo solo che suona molti strumenti). L’analista è alle prese con una grande complessità di strumenti. Per Freud era la sinfonia dell’essere. I fattori terapeutici si situano a un più alto livello d’astrazione: per esempio la libera associazione tende a sciogliere il linguaggio pietrificato da difese e resistenze.
Viene poi proiettata l’immagine di creazioni eseguite con lo smontaggio sistematico di un computer. Nota Petrella che quest’opera viene resa possibile usando cacciaviti minimalissimi, è un gioco, una sfida, una creazione e, dopo ulteriore smontaggio ri-creazione di “qualcosa” dalle ceneri dei computer. Con questo, si introduce il grande problema delle mutazioni, e ricostruzioni; pensando ai mutamenti del ‘900, si può riflettere su come siano cambiati anche gli psicoanalisti (viene qui citato “Le città invisibili” di Italo Calvino)
L’analista stesso è strumento , un fascio di funzioni, la psiche è strumento e oggetto dell’indagine analitica per la mente dell’analista e quella del paziente. Ascoltare, saper parlare, saper tacere, essere risonanti. Paula Heimann notava come la spontaneità non possa essere “strumento”. La presenza viva e partecipe dell’analista all’ascolto del transfert-controtransfert, è un vero grande strumento. Da un’antica incubatio nasce il setting, come strumento aspecifico, ma specifico per come lo vive il paziente: è il rapporto con l’oggetto. Per Roussillon il lettino è anche oggetto transizionale. Viene proiettata ancora una vignetta dove nella stanza d’analisi il paziente è sotto il lettino porgendo pinze, chiodi, martello all’analista comodamente seduto. Il relatore può notare che l’analista non dà sollievo se scambia strumenti di lavoro, spiegazioni o interpretazioni strumentali, appunto.
Ma allora quale può essere il significato e lo spazio dell’azione interpretativa?
Il modello archeologico freudiano prevedeva “zappe” e “vanghe” per raggiungere i reperti da portare alla luce, le civiltà sepolte dell’esperienza infantile. Furono poi altri strumenti metaforici come sonde, sonar ecc. Ma è la memoria dell’analista, nel senso di momenti affettivi più la passione per il senso (Barthes), a dare corpo e attivare le spirali relazionali come nelle identificazioni e nella identificazione proiettiva. Chiude l’intervento la proiezione di una scena dal film “Sussurri e grida” (1972) di Bergman. Non ci sono parole ma gesti di incontro tra due sorelle con il sottofondo di una melodia per violoncello. Contatto e apertura, dice Petrella, occorre l’invenzione artistica per tradurlo in immagini oltre la parola.
I lavori del Congresso sono proseguiti con l’intervento di Vincenzo Bonaminio, contributo che ha preso avvio con le parole “dare corpo al corpo (uno strumento negletto)”, ricordando come la psicoanalisi nacque con il mistero del corpo delle isteriche, Il setting freudiano istitui’ la soppressione dello sguardo reciproco, semplicemente perché “non sopporto gli occhi del paziente”, scrive nei “Nuovi Consigli per la Tecnica”, Freud (1910-11). Le manifestazioni corporee, i vari gorgoglii (anche l’intestino prese parte alla conversazione, scrisse Freud) si mettono nel campo per poter passare dal non detto al dicibile, e possono cercare espressione attraverso gli acting. La storia analitica di G., a partire dalla quale si dispiega l’intervento di Bonaminio, è quella di un paziente con un “grande” corpo: una stazza enorme. Il suo analista ci rende partecipi di come poteva nel vederlo buttarsi sul lettino, rammentargli il “come corpo morto cade”. L’analisi prosegue, e dopo mesi di chiusure e difficoltà, compaiono alcuni cambiamenti corporei, che sembrano abitare diversamente lo spazio all’interno del setting. Quando il giubbotto del paziente scivola via, dalla sedia dove era stato appoggiato, l’analista sente una furia interna che lo costringe a raccoglierlo e rimetterlo a posto. La reazione controtransferale “enorme” (anch’essa di grande stazza dunque), si trova a poter essere pensata all’interno del lavoro analitico successivo, il cui racconto accurato, vivo e coraggioso, credo abbia aperto un “campo” di pensiero per tutti i presenti in sala.
Nel domandarsi se possiamo aggiungere strumenti alla cassetta degli attrezzi analitici, Giuseppe Civitarese, nel suo intervento, pone la sua riflessione sulla ricettività dell’analista, e individua nella teoria bioniana della trasformazione in allucinosi (si trova nell’articolo di Bion del 1958 sull’allucinazione ripreso poi in “Analisi degli Schizofrenici e Metodo Psicoanalitico”, 1967), uno degli strumenti dello spettro onirico : sentire e vedere quel che vede/sente il paziente. La trasformazione in allucinosi (TA), intesa inizialmente come un meccanismo sostitutivo del diniego ( è questa la nozione psicoanalitica classica a cui si avvicina), per quanto concetto poco noto e poco trattato successivamente, (Meltzer 1978, Sandler 2005, 2009, Lopez-Corvo, 2002, Grotstein 2007) viene invece sviluppata da Bion quando ne descrive tre tipologie. Per così dire la TA diviene mano a mano un’attività mentale più “fisiologica”, quindi non solo appannaggio delle persone che presentano veri e propri disturbi psichici. Alla pari di qualsiasi difesa psichica è questione di gradi: solo un principio di consensualità può portare di volta in volta a farsi un’idea del livello di sconfinamento nel patologico. L’approdo finale di questo processo, che toglie al concetto di TA la sua connotazione di anormalità, è “Attenzione e interpretazione”, il saggio del 1970 in cui Bion (1971-1977) include l’allucinazione nella fila C della Griglia, assieme a pensiero onirico, mito e sogno. La TA diventa strumento tecnico dell’analista che nell’area intrapsichica trova la dimensione essenziale per l’analisi poiché “la relazione tra le due persone è una faccenda a due sensi e poiché si è impegnati a mostrare in quella relazione non si tratta di parlare dell’analista o dell’analizzando ma di qualcosa tra loro due” (Bion, 1978-80, pag 28).
Tuttavia sarebbe contraddittorio sostenere che si possa disciplinare qualcosa che, come la TA avviene inconsciamente. Ma allora di cosa si tratta? Di provare a ridurre, come quando ci predisponiamo al sonno, l’attività introiettiva della mente mediata dai sensi, per esaltare il negativo che si annida nella percezione. Sognare nella veglia, (ma non nel senso della reverie che implica una dimensione di consapevolezza), a differenza dall’esperire la vera allucinazione, consente all’analista la capacità di svegliarsi. Ossia di cogliere la contraddizione tra la sua idea delirante/o allucinazione e la realtà del momento in cui se ne rende conto.
La TA diventa allora una sonda per scandagliare le profondità emotive del campo analitico, un carotaggio del campo. Le allucinosi dell’analista hanno rilievo solo se accettiamo il postulato secondo cui riflettono un aspetto del “qualcosa tra” che si produce inconsciamente tra lui e il paziente. L’allucinosi diventa così lo strumento più efficace per esplorare la realtà emotiva inconscia transpersonale o interpsichica. Purchè poi se ne esca! Se l’analista è capace di trasformare in sogno l’incubo in cui per un po’ ha abitato con il suo paziente, lo affranca dal suo stato eccessivo di allucinosi, per il fatto stesso di vivere un’esperienza di unisono emotivo e di trasmettergli in vari altri modi la comprensione acquisita.
L’intervento di Elena Molinari “La ricerca della comodità in una poltrona scomoda” mi ha rimandato a quello che scrisse Matisse riguardo alla propria arte che considerava “una buona poltrona su cui riposare”, astraendosi dallo sterile dilemma fra astratto e figurativo che paralizzò a lungo tanta pittura europea..
La comodità nella poltrona scomoda, o sedia, o lettino, è l’originale riflessione di Molinari dove trova posto un contatto con il paziente non troppo rigido né troppo morbido, un buon contenimento nel modo di essere con le esigenze del momento: intuire desideri e necessità. La proiezione di alcune slides, ha consentito, io credo anche alla sala, un immaginarsi forme e “visioni” come qualcosa di sensoriale, nel significato, ad esesempio. dato da Frances Tustin quando diceva di provare a dimenticare la sedia ma di percepire il proprio corpo che aderisce alla forma dell’oggetto sul quale si trova seduto. Si tratta , per l’analista, di un contatto mentale il più esteso possibile. Comodità quindi come descrittore dell’unisono emotivo. Seguono alcune vignette cliniche. In una di queste vediamo arrivare in seduta una paziente con il proprio bambino che allatta al seno. La co-modità (unisono emotivo) prende qui la forma del ritrovarsi seduti tutti insieme sul tappeto: allattando. Il racconto ha, ancora, evocato in me i colori e la dolcezza che si apprezzano nell’incontrare quel piccolo capolavoro ligneo detto Madonna dell’Umiltà ( Museo Victoria di Melbourne, Ferrara, 1470), dove una madonna giocosa è seduta per terra, insieme al proprio bambino che ridendo le accarezza il mento. Una madre disposta a giocare e chinarsi, trovare forse la posizione più comoda; un contenitore mai rigido che prende la forma più appropriata per ciò che si ritrova. La riflessione sulla tecnica porta inoltre la relatrice a sottolineare il suo apprezzamento, elogio dei pazienti quando sono capaci di sottrarsi a qualcosa di costruito, nel senso di privo di spontaneità .
L’intervento conclusivo di Nino Ferro dal titolo” L’onirico in seduta”, ha esplorato la seduta come organismo sognante, chiedendosi inoltre in che misura la decostruzione narrativa deve, (o non deve), essere seguita da una teatralizzazione, e secondo quali scenari. Ferro riprende il discorso di Petrella laddove per appendere un quadro occorrono chiodo e martello, e per dipingerlo colori e pennelli. Facciamo il contrario, dice Ferro, è possibile partire dal martello, con il quale si può anche attaccare un quadro? Prendendo spunto da una domanda dalla Sala dove un collega racconta di come incontrando per la prima volta un paziente abbia pensato di questi che davvero fosse molto brutto (poi al secondo incontro è visibile al paziente una valigia -in effetti l’analista doveva partire-, mentre al terzo appuntamento il paziente non si presenta), Ferro si chiede dunque, tra le altre cose, quali siano state le emozioni in campo. E nuovamente, la decostruzione narrativa in che misura non deve essere seguita da una teatralizzazione e secondo quali scenari? Noi abbiamo consuetudine con il mondo interno, la relazione, la storia del paziente ecc. Ma quali sono gli strumenti chiave che attengono all’onirico? Secondo Ferro uno degli strumenti cardine dell’analisi la “trasformazione in sogno”, descritto come un “filtro magico”, che nella mente dell’analista può prendere la forma della seguente domanda: “ se questa cosa che mi dice il paziente fosse un sogno?”.
Ulteriore strumento utile all’analista è per Ferro certamente il concetto di “casting”, inteso come quella continua attività fatta dal pensiero onirico dello stato di veglia di reperimento di personaggi, situazioni che ne consentano la incarnazione emotiva.
Per l’analista l’attività di “dreaming” è una “observational technique” che consente l’entrare in contatto con le proprie ed altrui emozioni che sono le invarianti delle trasformazioni. E’ nota la differenza molto grande che vi è tra il modo di concepire il sogno tra Bion e Freud. Per quest’ultimo il lavoro del sogno consiste in una sorta di agenzia che crittografi il contenuto del sogno; per Bion il sogno ha la funzione di fornire “i mattoncini” di base per pensare, sentire, essere se stessi. Il modo di pensare al sogno di Bion cambia radicalmente il modo di guardare alla psicoanalisi: se il sintomo, la sofferenza psichica, derivano da una insufficiente capacità di sognare è chiaro che l’interesse della psicoanalisi si sposta dall’interesse per i contenuti all’interesse per gli apparati che producono il sogno.Nel famoso esempio del paziente di Bion che dice “icecream” e Bion pensa I – scream (“io grido”): in una trasformazione a moto rigido, l’interpretazione dell’analista avrebbe potuto essere : “lei mi sente freddo”!
Il setting inteso come un apparato che crea le regole formali del gioco e che permette operazioni trasformative grazie alla sua elasticità e assorbenza, è anche l’assetto mentale dell’analista che lo rende permeabile agli stati emotivi del suo paziente, ma che va incontro a un continuo disturbo e ristabilimento. Per altro, ogni paziente cerca il “proprio” analista nel setting, per esempio rompendo alcune regole. A tale proposito, ed in modo molto esplicativo, Ferro racconta alla platea il caso di un suo paziente che preferisce una diversa posizione : la poltrona girata dell’analista girata di spalle verso di lui.
Per Ferro tutte queste esemplificazioni cliniche, che a un primo sguardo possono apparire degli “oggetti bizzarri”, possiedono intrinsecamente una straordinaria ricchezza comunicativa che l’analista deve saper cogliere senza alterare il suo assetto interno, avendo in mente qual è il suo grado di tolleranza delle variazioni della tecnica classica.
Gennaio 2016