Giuseppe Civitarese (2014), I sensi e l’inconscio, Borla, Roma, pp. 224.
Susi Galimberti
Merito non secondario dei lavori che, come questo di Civitarese, riescono a non rimanere chiusi nella dimensione rigida di un’ermeneutica tutta interna al modello di riferimento, è la capacità di funzionare come stimolo a mettersi in gioco,costringendo in qualche modoogni lettore a riesaminare ex-novo i propri consolidati modelli di fronte alla proposta di un percorso innovatore, aperto a una molteplicità di stimoli fortemente soggettivi ma altrettanto fortemente ancorato a una impostazione di fedeltà critica alla tradizione psicoanalitica. Prima ancora di avviare qualsiasi valutazione specifica il lettore non può non apprezzare fin dall’avvio di questo percorso, il costituirsi non tanto come un generico invito, ma soprattutto come una guida “aperta”, a sviluppare senza pregiudizi e senza presunzioni di assolutezza, ulteriori riflessioni e prospettive critiche.
Prendendo le mosse da un richiamo articolato all’odierno stato dell’arte della psicoanalisi (e anche, e soprattutto, della clinica psicoanalitica) si avvia così la narrazione di un percorso che è sì squisitamente soggettivo nel rifarsi ad una “dimensione artistica” della ricerca ma anche chiaramente orientato a proporre non tanto un ripensamento quanto un’analisi da nuovi vertici degli elementi centrali della tradizione freudiana. Ciò si esplicita, sul primo versante, attraverso la dichiarata adesione alle modalità esegetiche di Ogden1 e Ferro2 e, sull’altro, soprattutto attraverso la messa a fuoco critica dei temi fondanti della psicoanalisi – primi fra tutti quello del carattere e ruolo dell’inconscio e quello dell’interpretazione come trasformazione. Questa analisi, sostenuta da un impeccabile apparato di riferimenti agli orientamenti innovativi che, pur in una costante fedeltà ai fondamenti della teoresi freudiana, si sono sviluppati nel tempo, trova certamente un punto di riferimento decisivo nell’abbagliante (ma solo apparente) asistematicitàdel sistema bioniano.
«Freud vede la cultura come repressione e addomesticamento delle pulsioni, Bion come creatività e sviluppo della capacità di pensiero. […] in Freud nelle fasi più primitive della vita la funzione mediatrice diretta della società finisce per pesare quasi tutta sulle spalle del concetto di rimozione originaria […] Il modello intersoggettivo di Bion dell’interazione madre-bambino ha le spalle più larghe e mostra come sin dall’inizio della vita sia la relazione ad accendere lo sviluppo della mente. Freud è più interessato al soggetto, per Bion si potrebbe dire che un soggetto non esiste se visto indipendentemente dal gruppo. […] Dalla diversa articolazione di un postulato che in sostanza condividono, come quello dell’inconscio come prodotto della socialità e del linguaggio, nascono due concezioni che sembrano l’una l’opposto dell’altra. […] Ciò è vero su un piano trasversale ma non longitudinale. Sul piano longitudinale, da Bion a Freud (sic) cambia la cornice epistemologica entro cui si collocano le rispettive teorizzazioni. Si passa dal moderno al postmoderno […] Non capiremmo le differenze nelle rispettive concezioni dell’inconscio se non tenessimo conto di questo dato essenziale»(p. 102).
Le opposte concezioni, dunque, solo apparentemente sono contrastanti in assoluto. Quel che come contrasto appare – vale a dire teoresi bioniana escludente quella freudiana e viceversa, secondo il postulato logico di esclusione – è in realtà, soltanto l’epifenomeno di una ben più complessa e sconvolgente situazione: l’irrompere nella sfera della teoresi di una logica totalmente diversa in grado di annullare le leggi della logica aristotelica e sostituirvi il moto browniano di quella che potrebbe essere chiamata una logica dei vertici (vertici in senso propriamente analitico). In essa postulati (e conseguentemente, proposizioni e teoremi)non introducono una dialettica rigida e atemporale di certezze/errori ma, appunto una «dialettica dei vertici» fondata sulla probabilità, il divenire, la polivalenza del tempo psichico.
Si esplicita così quella che potremmo chiamare una prima conclusione importante del discorso innovatore di Civitarese, importante soprattutto perché svela la fallacia – generale in ogni raggiungimento “scientifico”, in particolar modo in quelli delle scienze dell’uomo e ancor più particolarmente in psicoanalisi – di qualsiasi conclusione che pretenda al valore di assioma definitivo e non proponga già nel suo primo manifestarsi una connessa inevitabile diversa prospettiva. Si è già accennato che se un primo approccio al testo è in qualche modo condizionato dallo stile “artistico” dell’esposizione, sostenuto da un basso continuo di metafore che inizialmente potrebbe anche apparire sconcertante, si rivela chiaramente, non appena si entri nel vivo del percorso, la specifica validità metodologica di questa impostazione.
Lo si avverte bene, in particolare, nell’applicazione funzionale della tensione bioniana al «senso comune» che supporta la presentazione dei casi clinici. Essi non risultano infatti, come purtroppo spesso avviene, una illustrazione, nel senso proprio d’immagine aggiuntiva introdotta nel resoconto clinico come prova a-posteriori di un risultato già postulato come positivo, bensì l’articolata testimonianza del divenire molteplice dell’esperienza emotiva che si attua nel vivo della relazione analitica.
Il riferimento bioniano alla rappresentazione della sperimentazione emotiva, la capacità di rivivere l’esperienza della relazione analitica si fanno “storia” di quell’emozione nelle sue alternanze, nei suoi imprevedibili abissi e nelle immediate aperture alla “comune sensibilità”, e nei suoi a volte impercettibili passi, che attraverso una reciproca convergenza “corporea” consentono di vedere/sentire insieme al paziente.
Civitarese cita il concetto bioniano di Sistema Proto-mentale che appunto può manifestarsi «tanto in forma fisica che psicologica3» nel produrre «[…] reversibilità tra corporeo e psichico che [può attuarsi] non solo nella stessa persona ma anche tra due persone» e – si potrebbe aggiungere – anche e forse più intensamente all’interno di un campo gruppale4. In questo senso le rêverie dell’analista possono essere viste come snodi narrativi del campo emotivo in cui sono immersi analista e paziente, come «[…] un frutto della [loro] inarrestabile e invisibile comunicazione inconscia».
È in sostanza quello che accade (e che l’esperienza clinica comprova costantemente) nel formarsi del «campo gruppale». Abbiamo già visto più sopra che Bion ne propone l’esistenza fin dal primo inizio del divenire psichico del bambino nella relazione con la madre e il contesto culturale che lo circonda: in questo caso forse la metafora più appropriata non è tanto quella, che qui viene usata, dei «[…] pixel impazziti di un televisore senza segnale [che] si organizzano ma in realtà sono organizzati da qualcosa di esterno (c.vo mio) in una configurazione significativa» quanto piuttosto quella del formarsi, per un processo interno di relazione funzionale, di una armonia/contrappunto nel caotico e inconsapevole accumularsi di melodie singolari o, se si preferisce, del definirsi, dall’esperienza inconsapevole di molteplici segni linguistici, di un codice condiviso che li carica dei significati/valori di un linguaggio comune.
Si tratta di un processo di costruzione che si sviluppa come «funzione poetica del sogno», producendo non una consapevolezza logico-astratta, ma una «sensibilità per un’armonia tra corpo e mente» che ridà corpo alla mente o viceversa reinsedia la psiche nel corpo. Questo processo è essenzialmente relazionale: «[…] infatti l’inconscio rimosso o non rimosso non può essere pensato se non in funzione con l’altro. […] Nessun soggetto può esistere se non a patto di far parte dei campi di relazione. L’io non è padrone in casa propria perché la sua vera dimora sta nella socialità».
È quindi un falso problema il contrapporre sogno e pensiero razionale se non si coglie il senso della metafora del sogno come poesia della mente, riportandone il valore all’etimologia del significante (pòiesis, appunto, come atto del fare/produrre/realizzare) rimanendo legati all’immagine idealistica hegeliana della poesia come atto dello spirito. Conferma questa impostazione il riferimento alla funzione del Linguaggio dell’Effettività che Bion considera come la capacità dell’analista di comunicare “esteticamente5” con il paziente, vale a dire di entrare nella sua stessa lunghezza d’onda per consentirgli di affrontare insieme un percorso di strutturazione graduale della propria unità psicosomatica.
Da queste premesse si sviluppa l’analisi del tema delle trasformazioni in allucinosi6 (TA), che parte da un assioma apparentemente banale («[…] non si può capire davvero il senso dell’allucinosi se non entro la cornice della relazione con l’oggetto») per addentrarsi in una analisi complessa della riflessione di Bion su tale trasformazione nei suoi molteplici aspetti e graduazioni teoriche, e nelle connesse manifestazioni all’interno del procedere della relazione di cura analista-paziente.
L’analisi, che ripercorre anch’essa le dinamiche della tradizione psicoanalitica in questo campo, riconosce lucidamente la necessità di superarne la modalità consolidata di circoscrivere staticamente l’universo psichico per coppie di situazioni oppositive, per riconoscerne invece, ritornando in qualche modo a quanto era a suo tempo già stato costantemente proposto da Freud, il carattere essenzialmente dialettico, non di stati in sé immutabili ma di funzioni dinamiche.
È palese il riferimento alla visione trasformativa che sottende tutto il pensiero bioniano, e che consente di procedere verso una interpretazione dinamica ancora più avanzata rispetto a Bion, nell’accentuare il riferimento a un continuum analogico operante sullo stesso piano di dialettica relazionale, che Bion ha attribuito alla funzione alfa rispetto alla diade nevrosi-psicosi.
Ancora una volta la tradizione post-freudiana è interpretata, non come un processo definitivo di superamento/modificazione/cancellazione delle aporie di volta in volta riscontrate, né come una tensione dialettica univocamente diretta a una sintesi superiore. Dalla visione parcellizzata delle diverse situazioni dove la scissione è dinamica soltanto, per così dire, in senso orizzontale – come si avverte, ad esempio, nelle distinzioni bioniane circa le tipologie di trasformazione TMR-TP-TA; e, ancor di più, nella permanenza della scissione di origine freudiana fra inconscio, inconscio rimosso e rimosso – si arriva a una reinterpretazione in termini funzionali che, come giustamente osserva Civitarese, non ha tanto modificato l’immagine “oggettiva” di tali situazioni quanto ne ha sviluppato (più o meno organicamente) le caratteristiche da vertici culturali e storici diversi. Per dirla in termini molto schematici e banali, passando dal vertice del positivismo scientifico a quello “postmoderno” del probabilismo statistico e della continuità dei fenomeni in ottica quantistica.
L’analisi delle trasformazioni nel pensiero di Bion ne ripercorre la dinamica nei termini, appunto, di una continuità funzionale che si esplicita senza iati né distinzioni riconoscibili da un’intensità massima “patologica” (come “meccanismo sostitutivo del diniego”, alla “normalità fisiologica” di tenuta della psiche o di reazione della psiche di fronte all’insorgere dei traumi).
«Le TA non sono solo appannaggio delle persone che presentano veri e propri disturbi psicologici, poiché assicurerebbero la tenuta della psiche in questi frangenti, ma anzi conferirebbero alle nostre percezioni il necessario sfondo di familiarità e di prevedibilità. Com’è ovvio, al pari di qualsiasi difesa psichica, è questione di gradi: solo un principio di consensualità può portare di volta in volta a farsi un’idea del livello di sconfinamento nel patologico. […] In definitiva si può dire che Bion individua un tipo di trasformazione psichica ubiquitaria, che rende conto di come costruiamo la realtà: dalla fisiologia alla patologia. Ciò che varia è il grado di deformazione implicata nella trasformazione, che dipende dalla capacità maggiore o minore del soggetto di dare un significato all’esperienza» (pp. 78-79).
La direzione che queste indicazioni propongono le qualifica come uno dei contributi più significativi per un reinquadramento critico di alcuni fra i più importanti elementi fondativi della tradizione psicoanalitica, nelle profondamente mutate condizioni dei suoi riferimenti storici e antropologici. Si potrebbe addirittura dire che in questo quadro il sogno stesso, o meglio ancora il racconto/pensiero di sogno, potrebbero essere considerati una forma di TA. E c’è ancora qualcosa di ancor più innovatore nell’implicito ma non meno pertinente richiamo all’analogia che ne deriverebbe tra la funzione del sogno (poesia/allucinosi della mente) e la funzione alfa bioniana (trasformazione in allucinosi della “realtà” degli elementi beta).
Ciò comporta infine un inverarsi nel campo clinico dei nuovi orientamenti teorici, attraverso quella «trasformazione psichica ubiquitaria» che Bion indica come elemento essenziale dei processi di costruzione della realtà e che si inquadra in un modello di funzionamento della psiche in cui «[…] ciò che è rilevante e da cui non si può prescindere è la dimensione interpsichica».
Possono così esplicitarsi le “coordinate cartesiane” entro le quali Civitarese colloca il divenire del lavoro analitico, e che egli indica nelle due proposizioni: «L’analisi si svolge nello spazio che si trova tra l’analista e il paziente» e «La realtà che conta è la realtà emozionale». Lì si stabilisce il campo della comunicazione in/conscia che intreccia l’allucinosi dell’analista a quella del paziente stabilendo quindi «[…] la condizione ideale per intuire le realizzazioni psicoanalitiche».
«Se l’allucinato è colui che ha delle esperienze sensoriali prive di un contesto di realtà sensoriale, allo stesso modo l’analista dovrebbe essere capace di intuire una realtà psichica priva di realtà sensoriale nota7».
Sembra in sostanza una ripresentazione/rappresentazione di un tema fondamentale della relazione paziente-analista che Bion ha ripetutamente posto nella forma decisamente ambigua del «senso comune», mutuandola esplicitamente dalla koiné aìsthesis aristotelica8, ma caricandola di significazioni del tutto diverse che ne hanno fatto sinora (in specie nella infelice traduzione italiana dell’espressione originaria: common sense) un’oscura metafora.
La pur affascinante interpretazione/reimpostazione di Civitarese non sembra risolvere del tutto né il problema posto dalle significazioni possibili del «senso comune» bioniano all’interno del processo di allucinazione condivisa analista-paziente né soprattutto quello delle modalità necessariamente differenziate che la qualificano all’interno del campo analitico. Se appare assai fondata la proposizione generale che sviluppa il tema bioniano della funzione ubiquitaria dell’allucinosi all’interno del percorso clinico, non sembra altrettanto chiaramente sviluppato l’aspetto differenziale che pur in Bion sembra essersi in qualche modo posto e che pur Civitarese richiama: «[…] per entrare in contatto con un paziente che si trova in uno stato patologico di allucinosi, bisogna darsi la libertà di funzionare allo stesso modo. Come Bion scrive che bisogna mettere tra parentesi – si badi bene intenzionalmente9 – la realtà esterna con un’intensità che pareggia quella del paziente che allucina veramente 10– non sono l’allucinazione e il delirio le risorse estreme per non considerare la realtà materiale e per esprimere invece quella psichica?» (p. 82).
In altre parole sembra esser carente l’esplicitazione dei diversi “meccanismi” di accesso alla relazione in allucinosi e la loro giustificazione clinica che sembra non tener gran conto sia delle cautele bioniane che del fatto che l’allucinosi dell’analista non può non essere che un’allucinosi innanzitutto consapevole della sua dimensione relazionale e necessaria-mente regolata dalla consapevolezza sia dei contesti in cui si verifica che dell’obiettivo di cura in cui essa si produce. Viene in mente, per applicare anche a questa situazione una metaforizzazione “estetica”, il noto aforisma di Pessoa: «Il poeta è un fingitore», soprattutto se non ci si ferma a questo affascinante truismo e si prosegue: «Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente11».
D’altronde non possiamo che riconoscere ancora una volta nella trattazione di Civitarese, e proprio in maggior misura nelle non molte situazioni di non totale adesione alle sue proposte interpretative, una funzione di apertura – diremmo, di «esplosione controllata12» -che obbliga a rivedere il consolidato storico della ricerca e della clinica da nuovi vertici problematici e ad attivare nuovi processi critici e ri-costruttivi.
Uno di essi, con diretto riferimento alle osservazioni critiche espresse sopra, potrebbe essere appunto l’avvio di un ripensamento ragionato sulla validità (ma forse ancor prima sul /sui significati attribuibili) a una delle indicazioni criptiche bioniane, tra le più citate e troppo spesso citate a sproposito, nel senso di un mantra capace di garantire di per sé la fedeltà ai modelli consolidati. L’invito a operare senza memoria né desiderio13 interferisce infatti e non poco nella costruzione di un processo critico sulle TA, proprio perché, pur nell’ambiguità polisemica dell’espressione, sembra certo che si tratti comunque di un riferimento a processi in allucinosi, non dominati dalla consapevolezza dell’Io.
E, comunque, i tentativi di interpretazione mirati ad attenuarne l’apparente irrealizzabilità sul piano di una approssimazione generica a una condizione limite si sono urtati nella constatazione che non di quello si tratta bensì di una ben più complessa dimensione della relazione analitica. In questo senso non offre indicazioni risolutive neppure l’acuta riflessione di Luciana Nissim Momigliano che ancora alla fine della sua vita di pioniera della psicoanalisi in Italia continua a domandarsi come interpretare l’invito bioniano.
«Per quanto sia necessario quindi star molto all’erta a questo proposito, mi sembra tuttavia che la maggior difficoltà in questo campo non risieda tanto nel riuscire a padroneggiare attivamente i propri desideri, quanto nel riuscire a respingere i ricordi. Forse vale la pena allora di riportare una breve frase di Bion che, dopo aver ripetuto che «l’analista che si accosta alle sedute con una memoria attiva» non è in grado di compiere «osservazioni di fenomeni mentali ignoti perché questi non possono essere appresi sensualmente», poi aggiunge: «Esiste qualcosa, che spesso è stato chiamato ricordare(remembering), che è essenziale al lavoro psicoanalitico e che deve essere nettamente distinto da ciò che ho chiamato memoria» – che è la differenza tra il ricordo e l’esperienza di ricordare.
[…] restiamo con l’impressione che non è possibile raggiungere lo stato della mente che Bion propugna, attraverso la pratica della disciplina che lui suggerisce, in parte perché ciò può essere qualcosa di congeniale alla sua personalità e non alla nostra, in parte perché la sospensione di queste funzioni non è realizzabile attraverso un atto di volontà (che anzi può sembrare, in quanto tale; un ingombro anche maggiore per la mente dell’analista)14».
Un altro caposaldo della ricerca di Civitarese è il tema dell’in/conscio come funzione psicoanalitica della personalità, vale a dire – come d’altronde lascia intuire il modo stesso con cui il termine è ri-scritto – una revisione radicale della concezione freudiana che, passando ancora una volta per una articolata e documentata valutazione della tradizione critica che ne è derivata, giunge a esaminarne il “punto di arrivo” bioniano e a impostarne una innovativa revisione dinamica.
Non è cosa nuova per gli psicoanalisti “bioniani” l’opposizione che si stabilisce fra l’idea di inconscio freudiana come luogo/deposito psichico degli scarti originari o rimossi, ivi costretti dalla pressione superegoica, e quella bioniana che trasforma il deposito/prigione in una situazione psichica permeabile alla biunivoca azione della funzione alfa.
Va però tenuto presente come correttamente suggerisce Civitarese che proprio a Freud si deve l’introduzione di quel concetto di Nachträglichkeit che rappresenta in qualche modo il grimaldello ideale che consentirà alla psicoanalisi francese di Lacan15 e soprattutto di Derrida16 di penetrare nell’inconscio e di estrarne ricorsivamente i frammenti nel presente psichico, dove soltanto può avvenire ricostruzione del cancellato e del rimosso tramite appunto la funzione Nachträglichkeit. Come di molti altri termini fondamentali della teoresi psicoanalitica la traduzione di questo termine è una procedura particolarmente rischiosa, in particolar modo, come in questo caso, se il quadro concettuale che intende esprimere è estremamente complesso e contro intuitivo. Il rischio vero non è quello di “dire più o meno la stessa cosa” che è il rischio generale di ogni traduzione, ma quello di dire proprio e soltanto quello che soggettivamente si pensa che quella cosa possa dire all’interno del nostro sistema. Per quello che vale in questo contesto la si potrebbe definire/tradurre come il processo di ri-costruzione delle attività psichiche non giunte a coscienza o a suo tempo rimosse/rifiutate, che produce una risignificazione del passato nel presente (che sostanzialmente si identifica con il sogno e il pensiero-di-sogno che lo esprime).
È attraverso lo sviluppo di questa operazione di «trascendimento della cesura» conscio/inconscio che Civitarese illumina la rivoluzione bioniana nel suo trasformare le scissioni statiche in scissioni dinamiche che portano a considerare l’inconscio (meglio e più propriamente scritto nella forma di in/conscio) come «funzione psicoanalitica della personalità» (pp. 106 sgg.).
Si riconosce così, ancora una volta – nella variazione dei vertici epistemologici attraverso i quali vengono interpretate le strutture fondanti della teoresi e clinica analitiche – una sorta di parallelismo unificante. Lo scarto/opposizione, che ha qualificato le “coppie analitiche” in una antitesi costitutiva e immodificabile, si trasforma, anche per quella fondamentale conscio-inconscio, in un flusso dinamico di variazioni continue e, ancor più, continuamente reversibili. In esse la freccia del tempo si dissolve rispetto alle precedenti “immagini psichiche”, movendo da un indistinto alternarsi della misura e della direzionalità del tempo soggettivo (da Bergson a Nietzsche) rispetto alla irreversibilità di passato, presente e futuro del modello newtoniano e del senso comune, per arrivare alla sintesi binoculare dell’esistenza e contemporanea dissoluzione del tempo newtoniano nell’irrevocabile presente della psiche.
Il flusso conscioinconscio può così essere interpretato come una funzione continua dell’esperienza (funzione alfa) oscillante in un movimento multi direzionale: «A differenza di Freud, Bion […] postula una continuità essenziale tra esperienza cosciente e inconscia. Egli le vede come due dimensioni dello psichico separate da una barriera di contatto, una pellicola semipermeabile che consentirebbe un interscambio osmotico. [Inconscio e Conscio] non sarebbero più separati dalla doppia cesura inconscio-preconscio e preconscio-conscio, ma solo da una cesura cioè da una linea di confine intesa come un’area di articolazione funzionale e non come limite impenetrabile» (p. 114).
L’apparente aporia di una «barriera di contatto» come limite regolatore del flusso dell’in/conscio appare a Civitarese facilmente superabile se essa viene interpretata come una metafora “cosalizzata” della funzione alfa nello svolgimento dei processi che portano dagli elementi beta al concetto: «Come si sviluppa l’inconscio? Come possiamo spiegare il paradosso di una funzione alfa (un sognare) che dovrebbe istituire quell’inconscio (dopotutto, la barriera di contatto potrebbe esserne un sinonimo) dalla cui attività deriva essa stessa?» (p. 116)
In ultima analisi, tuttavia, il metodo di indagine di Civitarese mostra la sua fecondità, nel collegare il tema dell’In/conscio come continuità del divenire psichico con la relazione che sussiste fra l’inconscio non rimosso e il linguaggio. Ancora una volta il processo, come un percorso reticolare, consente di trascurare pro-tempore elementi non perfettamente coerenti per sviluppare altri percorsi, diversi ma comunque connessi, ricostituendo così la coesione complessiva della rete.
«Il riconoscere che Bion non solo avvalora l’identificazione totale che già Freud postula tra il linguaggio, la coscienza e (in negativo) l’inconscio ma illumina anche la relazione che sussiste tra il linguaggio e l’inconscio non rimosso; sia di quello del bambino che non ha ancora avuto accesso al linguaggio e che non è ancora un soggetto, sia poi anche di quello dell’adulto […] In altre parole, nessun tipo di inconscio, cognitivo, emotivo, dinamico è del tutto isolato dalle determinazioni simboliche, dal linguaggio, dalla cultura e dalle norme sociali; insomma, dall’ombra del rimosso» (p.120) apre un nuovo e ancora relativamente poco esplorato orizzonte che non riguarda soltanto lo statuto psichico dell’In/conscio ma lo statuto stesso della psicoanalisi. Il ruolo e la funzione del linguaggio e la sua ancor non definitivamente consolidata identificazione come strumento, o modalità, o essenza stessa del divenire psichico, sono questioni che interpellano oggi direttamente i fondamenti sia della teoresi che della clinica psicoanalitica e che implicano nel loro stesso porsi la necessità di un radicale ripensamento anche in termini di rivisitazione critica sia della nostra disciplina che dei (finora rari e sporadici) collegamenti con le altre scienze umane.
1 Odgen T.H. (2009), Riscoprire la psicoanalisi. Pensare e sognare, imparare e dimenticare, CIS, Milano.
Ogden T.H. (2012), Il leggere creativo. Saggi su fondamentali lavori analitici, CIS, Milano.
2 Ferro A. (1999), Psicoanalisi come letteratura e terapia, Cortina, Milano.
Ferro A. (2009), Trasformazioni in sogno e personaggi nel campo psicoanalitico, Rivista di Psicoanalisi,55: pp. 395-420.
3 Bion W.R. (1961), Esperienze nei gruppi, Armando, Roma, 1971; p. 109-110.
4 È d’obbligo richiamare a questo proposito il contributo fondamentale di F. Corrao alla definizione del concetto di campo gruppale e alla psicoanalisi di gruppo in generale (in Orme, Vol. II., Milano Cortina, 1998).
5 L’avverbio va inteso propriamente in relazione al suo significato etimologico specifico (aisthànomai: sento, percepisco con i sensi)
6 Bion W.R. (1965), Trasformazioni, Armando, Roma, 1973.
7 Bion W.R. (1967), Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando Roma, 1970; p. 248.
8 Aristotele, De Anima, III, I, 425 a10.
9 Corsivo dell’autore.
10 Corsivi del recensore.
11 Pessoa F., Autopsicografia. 1 aprile 1931, in, Una sola moltitudine, vol.1, Trad. It., Adelphi, Milano, 1987.
12 Si rimanda nello specifico alle illustrazioni presentate alla p. 70 e più in generale all’insieme delle illustrazioni e dei disegni contenuti nel volume, nonché alle note esplicative che li accompagnano, apparato che evidenzia anche in questo la solidità dei riferimenti alla tradizione dell’esegesi meta-analitica dei linguaggi figurativi, e al tempo stesso la fecondità innovatrice dell’approccio da vertici contestuali diversi.
13 Bion W.R. (1970), Attenzione e interpretazione, Armando, Roma, 1973.
14 Nissim Momigliano L. (1994), La memoria e il desiderio, in Neri C, Correale A, Fadda P. (a cura di), Letture bioniane, Borla, Roma, 1994; pp. 256-278.
15 Lacan J. (1966), Scritti, Einaudi, Torino, 2002.
16 Derrida J. (1992), Essere giusti con Freud. La storia della follia nell’età della psicoanalisi, Cortina, Milano, 1994.